Leggo spesso, troppe volte, cose del tipo:
“ok ne parliamo male, ma se stiamo qui a parlarne significa che funziona”
E ogni volta che lo leggo è un colpo al cuore.
Dannato fu Oscar Wild
Si, perché st’espressione, “purché se ne parli” è una parafrasi da Dorian Gray, dove Wilde scriveva: «There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about».
E in parte è vero: l’anonimato è ciò che di peggio può esserci per un’azienda. Ma siamo sicuri che il “badvertising” (dall’inglese “bad” + “advertising”) sia la soluzione migliore?
“Purché se ne parli” negli anni è diventato baluardo di difesa estrema dell’indifendibile, complice del fatto che ad un’analisi superficiale la cosa funziona: divento virale, faccio view e divento un influencer!
Il problema è che rimane un approccio basato sulla quantità e non sulla qualità, e soprattutto non è lungimirante, né sostenibile a lungo termine.
Siamo nell’era in cui gli utenti del web hanno possibilità di esprimersi e commentare, hanno consapevolezza degli strumenti a loro disposizione e, quando qualcosa non va, li usano come una lama affilata per colpire!
Per questo “Purché se ne parli” non può funzionare, e oggi più che mai è necessario migliorare la propria Brand Awareness (che, a semplificare, è il modo in cui il nostro brand appare all’esterno, la sua reputazione)
Ma sta Brand Awareness è davvero importante?
Esperimento: due panini del McDonald, identici, presentati alle stesse persone, uno come panino del fast food, l’altro come hamburger gourmet di un noto chef. Indovinate quale è stato il panino più apprezzato?
Questo cosa ci dice?
Che il nostro giudizio globale su un brand, la sua reputazione, è capace di influenzare il giudizio specifico del singolo prodotto offerto. Questo, nella psicologia-sociale, è chiamato Effetto Alone
E allora?
Quindi in sintesi, NO, “purché se ne parli” non è una strategia di marketing valida, non è un’opzione. Non usatela per giustificare brutti lavori o trovate fuori luogo.
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